Exposition au musée

Chi ha paura delle donne fotografe? 1839-1945

Deuxième partie : 1918-1945

Dal 14 Ottobre 2015 al 24 Gennaio 2016
Madame Yevonde
Portrait de Joan Maude, 1932
Londres, National Portrait Gallery
© Yevonde Portrait Archive / National Portrait Gallery London

Donne e fotografe

Margaret Bourke-White-Self-portrait with camera (Autoportrait à la camera)
Margaret Bourke-White
Self-portrait with camera (Autoportrait à la camera)
Los Angeles County Museum of Art (LACMA), Los Angeles
© Digital Image Museum Associates/LACMA/Art Resource NY/Scala, Florence

Donne e fotografe

Essere donna e fotografa dopo la Grande Guerra significa esplorare nuovi generi e nuovi territori. Significa contribuire alla nascita della fotografia moderna e partecipare all’effervescenza creativa che caratterizza focolai culturali quali Parigi, Berlino, Budapest, Londra, New York o San Francisco. Significa, per alcune donne, passare dietro l’obiettivo dopo esserne state la mira.
Essere donna e fotografa significa inoltre entrare tra le file dei teorici e scrivere la storia della fotografia; partecipare attivamente all’istituzionalizzazione di una pratica nuova, tramite l’allestimento di mostre dentro saloni e gallerie, la creazione di scuole, e la direzione di studi fotografici o agenzie di distribuzione. Per le donne, la fotografia è ormai un mestiere dalle molteplici sfaccettature e applicazioni.
Essere donna e fotografa significa anche creare delle reti di formazione e collaborazione, in un contesto di grande mobilità geografica su scala internazionale, nonché di forte concorrenza con... gli uomini. Difatti, la condivisione di spazi, titoli e status è fonte di preoccupazioni, tensioni e conflitti: i colleghi, così come i critici, gli storici e i giornalisti, se non addirittura i mariti, fanno di tutto per presentare queste donne come delle rivali, che per di più indeboliscono la tradizionale divisione di compiti e ruoli attribuiti ai due sessi.
Il percorso di questa esposizione, che varca la soglia dello studio per imboccare i sentieri del mondo, intende mostrare come, in un’Europa devastata, le donne si approprino del medium fotografico secondo strategie di affermazione artistica e professionale, e come conquistino territori fin lì riservati ai soli uomini. Questo viaggio nella storia della modernità desidera inoltre guardare la storia con occhi moderni.

Stravolgere i codici. Opere di signore

Aenne Biermann-Gummibaum
Aenne Biermann
Gummibaum, vers 1927
Essen, Museum Folkwang
© Museum Folkwang Essen

Stravolgere i codici. Opere di signore

Qual è, all’indomani della Prima guerra mondiale, l’approccio delle donne a quelli che, nel XIX secolo, erano generi tipicamente femminili, come il ritratto, la natura morta o il teatro dell’intimità? Dopo essere state a lungo le esperte per definizione di tali categorie ‒o perché richiedono pazienza, empatia e contatto con i modelli, o perché praticate tra le pareti dell’abitazione o dello studio fotografico ‒ ecco che spesso ne stravolgono i codici di rappresentazione in maniera critica o ironica.
Le scene di fiori e piante cariche di sensualità, i ritratti sfavillanti di donne autonome ci suggeriscono che, al pari degli uomini, anche le donne sono esseri in grado di provare desiderio. Le molteplici immagini di bambole ‒ simbolo della riproduzione sociale dei ruoli femminili ‒ rovinate, rotte e deformi, ma raramente erotizzate, così come i numerosi scatti di uomini ora ambigui ora grotteschi, lasciano intravedere i frammenti delle profonde trasformazioni sociali e culturali in atto nelle società occidentali. In molte delle loro fotografie, il maschio, privato della sua superbia, è interrogato nel suo status di dominatore.
A forza di sperimentare, spesso per prime, macrofotografie (Laure Albin Guillot, Aenne Biermann), solarizzazioni (Lee Miller, Lotte Jacobi, Gertrud Fehr), fotogrammi (Lucia Moholy), disegni luminosi (Barbara Morgan, Carlotta Corpron), sovrimpressioni, fotomontaggi e collage fotografici (Olga Wlassics, Dora Maar, Marta Astfalck-Vietz), raggi infrarossi e ultravioletti (Ellen Auerbach), o ancora procedimenti a colori (Madame Yevonde, Gisèle Freund, Elisabeth Hase, Marion Post Wolcott), queste fotografe vanno definendo il repertorio stilistico e teorico della modernità.
I loro lavori rientrano appieno nei movimenti avanguardisti: Surrealismo, Nuova oggettività, Straight Photography (fotografia pura) o ancora Nuova visione.

Ruth Bernhard-Embryo
Ruth Bernhard
Embryo, 1934, tirage 1955-1960
Keith de Lellis Gallery, New York
© Reproduced with permission of the Ruth Bernhard Archive, Princeton University Art Museum. © Trustees Princeton University © Photo courtesy of the Keith de Lellis Gallery, New York

Stemmi del corpo maschile e giochi proibiti

Superato il divieto ottocentesco di nudo fotografico per le donne, queste abbondano ormai nel genere, il quale appare libero da riferimenti letterari, allegorici o mitologici. Tollerato dalla censura purché privo di peli pubici e di organo sessuale, e purché somigli a una statua monocolore, il corpo femminile è spesso il punto di passaggio obbligato per un(a) fotografo(a) che voglia dimostrare il proprio talento tecnico e artistico. Quanto al corpo maschile, allorché esce dai confini del naturismo o del contesto sportivo, resta un argomento relativamente tabù... soprattutto se oggetto di fruizione estetica da parte di una donna.
Dopo le americane Imogen Cunningham o Adelaide Hanscom all’inizio del secolo, Laure Albin Guillot è una delle prime a esporre in Europa studi di nudo maschile.
A prescindere dal sesso del modello, i confini tra lecito e illecito, legalità e illegalità, moralità e immoralità sono alquanto labili. Nel 1920, la danese Mary Willumsen viene arrestata perché le sue foto di bagnanti poco vestite tendono un po’ troppo all’erotismo. La polizia berlinese sequestra per “indecenza” alcune stampe dell’austriaca Trude Fleischmann, esposte in una galleria e raffiguranti un nudo integrale della ballerina Claire Bauroff. La tedesca Gisèle Freund, rifugiatasi a Parigi per sfuggire alle persecuzioni naziste, viene fermata a più riprese dalla polizia, poiché sospettata (a torto) di praticare la pornografia nel suo laboratorio.
Oltre ad essere esposte in numerose mostre fotografiche e pubblicate in periodici di avanguardia, le immagini di Florence Henri, Germaine Krull, Ergy Landau o Dora Maar appaiono altrettanto regolarmente su riviste più leggere, che trattano di fascino e di erotismo.
Negli anni ’30, la sola Parigi conosce una fioritura di testate (Paris Sex Appeal, Paris Magazine, Pages Folles, Vénus Magazine, Pour lire à deux) dalle tirature spesso elevate, le quali offrono a queste donne uno sbocco alle loro produzioni, oltre che delle entrate fisse.

“Quo vadis femminilità?”

Elfriede Stegemeyer (1908-1988)-Self Portrait
Elfriede Stegemeyer (1908-1988)
Self Portrait, 1933
Los Angeles County Museum of Art (LACMA), Los Angeles
© Digital Image Museum Associates/LACMA/Art Resource NY/Scala, Florence

“Quo vadis femminilità?”

Nel resoconto dell’enorme mostra organizzata alla galleria del Jeu de Paume e consacrata alle “Donne artiste d’Europa” ‒ apparso nell’aprile 1937 sulla rivista L'Officiel de la couture et de la mode de Paris ‒ il critico S.R. Nalys scrive a proposito delle donne fotografe rappresentate: “Nella sua brutalità, l’uomo punta l’obbiettivo come una mitragliatrice. La donna, invece, lo maneggia amorevolmente, dopo aver accarezzato con lo sguardo il soggetto che si propone di immortalare. Un abisso separa i loro gesti: la femminilità”.
La stampa mondana dell’epoca diffonde una serie di stereotipi su presunte peculiarità della fotografia femminile e tende valorizzare un immaginario sdolcinato e superficiale, concentrandosi prevalentemente sugli scatti privi di riferimenti politici (paesaggi, nature morte, animali) o di fattura classica. Eppure, sono tante le fotografe che stabiliscono nelle loro immagini una distanza critica rispetto alla loro condizione sottolineandone le contraddizioni. Esse esprimono senza mezzi termini la violenza dei rapporti tra i sessi e la morsa della coppia. Alcune, come Claude Cahun, Germaine Krull, Hannah Höch o Lisette Model, interrogano le norme sociali ed esplorano al tempo stesso il campo delle possibilità in termini di orientamento sessuale.

Wanda Wulz-Me + Cat
Wanda Wulz
Me + Cat, 1932
Florence, Alinari museum
© Archives Alinari, Florence, Dist. RMN-Grand Palais / Wanda Wulz

Autoritratti e travestimenti

Esplorazioni di un genere, esplorazioni del genere A partire dall’invenzione della fotografia si è cercato di rappresentare se stessi tramite lo specchio, lo scatto con il filo e lo scatto ritardato.
Nell’Ottocento, tuttavia, gli autoritratti femminili sono una rarità. È solo a partire dagli anni ’20 che la messa a nudo del proprio corpo, i giochi di travestimenti o l’alterazione delle identità diventano dei soggetti di interesse. Ciò presuppone infatti un’indipendenza economica e la possibilità di disporre di una “stanza tutta per sé”, come reclama la scrittrice inglese Virginia Woolf in un saggio del 1929: un luogo di libertà e intimità all’interno dello spazio privato o dello studio professionale.
Il travestimento e la messinscena di sé piacciono molto alle donne. Lo specchio e l’obbiettivo non sono semplici curiosità ottiche come per gli uomini: sono mezzi di introspezione, di indagine identitaria e sessuale, e di distanziamento dalle prescrizioni sociali relative ai tradizionali ruoli di figlia, moglie e madre.
La straordinaria diffusione dell’autoritratto femminile va di pari passo con l’emergere della donna nuova, impersonata da una generazione che si taglia i capelli a caschetto, indossa pantaloni e abiti corti “alla maschietta”, posa sfacciatamente con una mano sul fianco o una sigaretta fra le dita. Non senza ambivalenza, incertezza e preoccupazione, alcune fotografe si creano una doppia identità attraverso la (de)costruzione della propria immagine. La scelta di nomi d’arte o pseudonimi fa parte di questa emancipazione: così, Dorothea Lange e Margaret Bourke-White prendono il nome della loro madre; Rogi André, Lotte Errell o Laure Albin Guillot adottano come patronimico il nome dei loro rispettivi mariti; Gerda Taro assume le sembianze di una misteriosa Greta Garbo e Marie-Claude Vogel di un’enigmatica Marivo. Nel cambiare nome, Claude Cahun opta per il genere neutro, mentre Lee Miller per il maschile.

Io, fotografa

Marianne Brandt-Das Atelier in der Kugel gespiegelt (Selbstportrait im Atelier, Bauhaus Dessau)
Marianne Brandt
Das Atelier in der Kugel gespiegelt (Selbstportrait im Atelier, Bauhaus Dessau), 1928-1929, tirage en 1990
Berlin, Bahaus Archiv
© Bauhaus-Archiv Berlin

Io, fotografa

L’autoritratto fotografico è una specie di biglietto da visita che esprime uno status professionale, oltre che una dichiarazione d’intenti tecnica ed estetica al tempo stesso. Non si tratta, tuttavia, del semplice corrispettivo dell’autoritratto maschile: in un atteggiamento di padronanza e facendo della macchina fotografica il prolungamento della visione, le donne si trasformano in soggetti dotati di uno sguardo, trasgredendo così secoli e secoli di iconografia stereotipata.
Che siano realizzati per essere diffusi o destinati alla sfera privata, questi autoritratti contribuiscono a dare loro una visibilità sociale e simbolica. Alcune fotografe accedono alla sfera pubblica e al riconoscimento anche tramite la pubblicazione. Il periodo compreso fra le due guerre è segnato da una profonda riflessione ontologica sul medium fotografico. Al di là delle corrispondenze e dei diari intimi, c’è che si appropria di forme di scrittura fin lì di appannaggio maschile, come quella del manifesto, del manuale e della storia, e chi, come Dorothy Norman o Lee Miller, scrive testi nati dalla vicinanza intellettuale ed emotiva con rinomati maestri (Alfred Stieglitz, Man Ray), di cui si proclama biografa. Altre ancora, come Madame Yevonde, Margaret Bourke-White o Gertrud Fehr, ci consegnano il racconto del loro incontro col medium fotografico, a cui devono il riconoscimento pubblico e l’indipendenza.
Al manifesto, forma di scrittura in atto e proclamazione di un programma, hanno fatto ricorso anche Dorothea Lange, Germaine Krull o Tina Modotti. D’altro canto, Laure Albin Guillot e Berenice Abbott hanno pubblicato manuali di esperimenti e consigli rivolti agli studenti e agli apprendisti fotografi. Infine, Gisèle Freund e Lucia Moholy, fortemente influenzate dal modello delle scienze sociali, hanno rinnovato la storia della fotografia.

Tina Modotti-Woman With Flag
Tina Modotti
Woman With Flag, 1928
New York, Museum of Modern Art (MoMA)
Courtesy of Isabel Carrbajal Bolandi
© 2014, Digital image, The Museum of Modern Art, New York / Scala, Florence

Alla conquista dei territori dell’immagine. Baluardi maschili

La prima metà del XX secolo vede le donne prendere d’assalto i territori dell’universale (maschile). Esse praticano ormai generi un tempo tabù, come il nudo e, in maggior misura, l’erotismo e la rappresentazione dei corpi sessuati, entrando in rivalità con gli uomini sui mercati emergenti dell’immagine: moda e pubblicità, reportage e giornalismo. Munite della propria macchina fotografica, le donne penetrano nella vita politica, si recano nei luoghi di guerra, si avventurano da sole in regioni esotiche: il loro status di fotografe fa sì che occupino spazi fino allora poco frequentati dalle donne, se non addirittura proibiti.
Con la diffusione della stampa illustrata, agevolata dai procedimenti fotomeccanici, la moda e la pubblicità offrono loro degli sbocchi professionali e i mezzi per conquistare l’indipendenza economica. Le centinaia di pubblicazioni illustrate, periodici d’informazione o riviste specializzate, accolgono i loro esperimenti grafici, in un campo in cui è tutto da inventare. D’altro canto, i giornali femminili si rivolgono a dei lettori moderni, presentando immagini di donne emancipate, talvolta concepite da altre donne di cui è spesso inscenata l’indipendenza.
Inoltre, alcune di queste fotografe si appropriano volontariamente dei simboli della modernità, tradizionalmente associati a quelli della virilità: la macchina, l’automobile o l’architettura industriale. Esse si confrontano allora con determinati “oggetti pretesto”, la cui bellezza è vantata dai circoli di avanguardia, come la torre Eiffel o il ponte trasbordatore di Marsiglia, dando prova di abilità tecnica e talento estetico.

Nuovi orizzonti e viaggi interiori

Ella Maillart-Descente du col de Djengart à la frontière de la Chine. Kirghisie
Ella Maillart
Descente du col de Djengart à la frontière de la Chine. Kirghisie
Lausanne, Musée de l'Elysée
© Musée de l'Elysée, Lausanne /Fonds Ella Maillart

Nuovi orizzonti e viaggi interiori

Nonostante l’importante contributo dato alla rivista National Geographic, l’esploratrice americana Harriet Chalmers Adam non può accedere al club strettamente maschile della National Geographic Society. Così, con il sostegno di alcuni seguaci, nel 1924 fonda a Washington la Society of Women Geographers.
In quanto donne, le viaggiatrici fotografe sono sistematicamente rifiutate nelle spedizioni sportive o nelle missioni scientifiche: la campionessa di sci e vela Ella Maillart non è autorizzata a partecipare alla Crociera gialla, una traversata automobilistica da Beirut a Pechino organizzata da André Citroën tra l’aprile 1931 e il febbraio 1932; nel 1934, il comandante Charcot non vuole nella propria stazione del Scoresby Sund, in Groenlandia, l’oceanografa Odette du Puigaudeau.
Forte dell’esperienza delle prime esploratrici ottocentesche, ispirata dalla letteratura romanzesca di viaggi molto popolari all’inizio del Novecento, ma anche sensibile all’approccio etnologico che si andava allora definendo, un’intera generazione di donne colte si vede confrontata con un altrove che provoca spaesamento. Giornaliste, scrittrici, ricercatrici, ricorrono alla fotografia e al film per prendere appunti, per analizzare le società incontrate, facendone al tempo stesso degli strumenti di emancipazione e scoperta di sé.
La lontananza favorisce una maggiore autonomia: rappresenta un’occasione di libertà, permette di instaurare delle relazioni sociali differenti e offre la speranza di abolire la condizione di donna quale esse vivono in Europa o negli Stati Uniti.

Julia Pirotte-Maquisards des Forces Françaises de l'Intérieur (FFI) près de Venelles à Sainte-Victoire
Julia Pirotte
Maquisards des Forces Françaises de l'Intérieur (FFI) près de Venelles à Sainte-Victoire, 1944
Paris, Musée de l'Armée
© DR- Musée de l'Armée, Dist. RMN-Grand Palais / Marie Bour

Al fronte

Negli anni ‘30 si assiste alla nascita della figura del fotoreporter: un fotografo che tratta un determinato argomento tramite immagini corredate di un testo, eventualmente scritto di suo pugno e destinato alla stampa.
Sono molte le donne che entrano in questo mercato emergente, con vari statuti: free-lance che vendono le proprie stampe da sé o tramite un’agenzia di distribuzione; collaboratrici regolari di riviste, come Germaine Krull con Vu o Lee Miller con Vogue ; figure fisse delle redazioni, come Margaret Bourke-White e Hansel Mieth per Life.
Se la commercializzazione di macchine fotografiche di formato piccolo e molto maneggevole come l’Ermanox (1924), la Rolleiflex (1929) o la Leica (1930) ha favorito lo sviluppo del fotogiornalismo, è stato anche e soprattutto il desiderio di vedere, andare e raccontare ad avere spinto le donne a uscire dallo studio fotografico per accedere tanto ai luoghi pubblici quanto agli spazi della politica, fino ad allora monopolizzati dal sesso maschile.
Così, l’americana Toni Frissell decide di lasciare le pagine interne delle riviste per cui lavora, dedicate alla moda, per dimostrare a se stessa di essere in grado di realizzare un buon reportage che, di quelle stesse riviste, costituirà la copertina. A partire dal 1941, ella mette le sue competenze fotografiche al servizio della Croce Rossa, dell’Ottava Air Force e del Women's Army Corps.
Di fatto, decine di donne in ogni paese ottengono riconoscimenti e commesse durante la Seconda guerra mondiale: i conflitti armati sono l’ultimo baluardo maschile da conquistare. Per molte di loro, la macchina fotografica diviene un’arma e si rivela un mezzo per resistere, difendere dei valori comuni e lottare per la libertà.

Donne, fotografe, e cineaste

Donne, fotografe, e cineaste

Parallelamente alla fotografia, alcune donne esplorano altre forme di creazione e di espressione: la pittura (Dora Maar, Marta Hoeppfner), la scrittura (Claude Cahun, Eudora Welty), il design (Marianne Brandt), la musica (Florence Henri), ecc.... senza dimenticare il cinema, che, come la fotografia, è uno strumento di registrazione, un serbatoio di narrazione, potenziato da suono e animazione.
Nel decennio 1920-1930, la comparsa di pellicole di formato ridotto e la nascita di cineprese portatili favorisce la sperimentazione tecnica ed estetica (Germaine Dulac, Germaine Krull, Maya Deren), oltre che la mobilità geografica e culturale (Thérèse Rivière, Margaret Mead, Ella Maillart, Ria Hackin). La debole strutturazione del settore – la nascita del cinema risale agli anni ’90 dell’Ottocento – e l’assenza di organismi di formazione obbligatori facilitano la pratica di questo medium in forma amatoriale.
Destinato alla proiezione, il film si rivolge a un pubblico potenziale. Nel vortice di tensioni e di preoccupazioni che sommerge il mondo occidentale, alcune donne si lanciano nel dibattito pubblico. Cinepresa in spalla, esse tentano di cambiare la società: alcune al servizio del totalitarismo nazista (Leni Riefenstahl) o sovietico (Margaret Bourke-White), altre al seguito del progetto sionista (Ellen Auerbach), altre ancora promuovendo ideali di pace fra i popoli (Madeline Brandeis) o di solidarietà con i più deboli (Ella Bergmann-Michel). L’uso du cinema sancisce incontestabilmente l’ingresso delle donne nella sfera politica.