Ce que l'on appelle le vagabondage
Nato a Bruxelles nel 1823, il pittore belga Alfred Stevens si stabilisce a Parigi a partire dagli anni quaranta del XIX secolo. Questo quadro è emblematico della prima fase della sua carriera artistica, nel corso della quale Stevens raffigura, nelle sue composizioni realiste, la miseria del tempo.
La strada parigina fa da sfondo ad una drammatica scena di vita urbana. Una madre ed i suoi figli vestiti di stracci, accusati di vagabondaggio, vengono condotti in carcere da alcuni gendarmi.
Una donna elegantemente vestita ha intenzione di intercedere in favore di questi sventurati presso le guardie mentre un operaio ci ha già rinunciato. Il tentativo della donna, però, è destinato a fallire, come dimostra il gesto di rifiuto di uno dei gendarmi. Una scena analoga è contenuta anche in Cose viste di Victor Hugo.
Le speculazioni immobiliari ("vendita per aggiudicazione") e i piaceri della buona società ("ballo") evocati da alcuni manifesti affissi sulla parete del lungo muro grigio, stridono con la povertà descritta.
Le diverse classi sociali che coabitano nello stesso spazio urbano si trovano qui giustapposte in una composizione commovente ed il ruolo dello Stato, puramente repressivo, ne esce molto indebolito.
L'obiettivo di Stevens è proprio quello di denunciare la miseria delle città e il trattamento crudele riservato agli indigenti. Il messaggio trova un'eco presso Napoleone III che, alla vista di questo quadro nel corso dell'Esposizione Universale del 1855, avrebbe dichiarato: "La cosa non si ripeterà più". A seguito di questa affermazione, l'Imperatore ordina che, da questo momento in poi, i vagabondi siano condotti alla Conciergerie all'interno di una carrozza chiusa e non più a piedi.